I risultati positivi dello studio di Fase III Emerald-1 mostrano come durvalumab in combinazione con Tace e bevacizumab abbia prodotto un miglioramento statisticamente significativo e clinicamente rilevante dell’endpoint primario di sopravvivenza libera da progressione (Pfs) rispetto alla sola Tace nei pazienti con carcinoma epatocellulare (Hcc) eleggibile per l’embolizzazione. I risultati sono stati presentati il 19 gennaio 2024 all’American society of clinical oncology gastrointestinal cancers symposium (Asco Gi) a San Francisco, California, dal Prof. Riccardo Lencioni dell’Università di Pisa. Circa il 20-30% dei pazienti con carcinoma epatocellulare, il più comune tumore del fegato, è eleggibile per l’embolizzazione, una procedura che blocca l’afflusso di sangue al tumore e permette di somministrare la chemioterapia o la radioterapia direttamente al fegato. Nonostante sia lo standard di cura in questo setting, la maggior parte dei pazienti embolizzati presenta progressione di malattia o recidiva entro un anno.

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Durvalumab più Tace e bevacizumab

Nello studio Emerald-1, il trattamento con durvalumab più Tace e bevacizumab ha ridotto il rischio di progressione di malattia o di morte del 23% rispetto alla sola Tace (rapporto di rischio [Hr] 0,77, intervallo di confidenza [Ci] 95% 0,61-0,98, p 0,032). La sopravvivenza libera da progressione mediana è risultata di 15 mesi nei pazienti trattati con la combinazione con durvalumab rispetto a 8,2 mesi con Tace. Il beneficio di Pfs osservato è stato generalmente coerente nei principali sottogruppi predefiniti. L’endpoint secondario del tempo alla progressione (Ttp) supporta ulteriormente il beneficio clinico di durvalumab più Tace e bevacizumab in questo setting, con un Ttp mediano di 22 mesi rispetto a 10 mesi con Tace (Hr 0,63, Ci 95% 0,48-0,82). Lo studio come previsto continuerà ad analizzare l’endpoint secondario principale di sopravvivenza globale (Os).

Approccio terapeutico combinato

Lencioni ha osservato che «in questo contesto di malattia, la chemioembolizzazione rappresenta lo standard di cura da più di 20 anni. I dati presentati dimostrano come un approccio terapeutico combinato, che comprenda, oltre alla chemioembolizzazione, un trattamento sistemico con durvalumab e bevacizumab, sia in grado di aumentare in modo significativo la sopravvivenza libera da progressione».

Tra i fattori di rischio epatite B, C, sindrome metabolica e abuso di alcol

Secondo Vincenzo Mazzaferro, docente di Chirurgia all’Università degli Studi di Milano e direttore della Chirurgia oncologica (epato-gastro-pancreatica) e trapianto di fegato alla Fondazione Irccs Istituto nazionale dei tumori di Milano, «nel 2023, in Italia, sono stati stimati 12.200 nuovi casi di tumore del fegato. I principali fattori di rischio sono costituiti da patologie come l’epatite B e l’epatite C, sindrome metabolica e abuso di alcol. Tutti i pazienti che hanno sviluppato una forma di epatite devono sottoporsi a controlli epatologici frequenti, per monitorare l’andamento dell’infezione, trattarla e diagnosticare precocemente l’eventuale sviluppo del tumore del fegato».

Ruolo dell’immunoterapia in combinazione con la chemioembolizzazione

Mazzaferro ha evidenziato che «l’immunoterapia con durvalumab ha già dimostrato di essere efficace nella malattia metastatica. Lo studio Emerald-1 evidenzia il ruolo importante dell’immunoterapia in combinazione con la chemioembolizzazione, quando il tumore è confinato al fegato e la funzionalità epatica non è compromessa. Alcuni di questi pazienti possono raggiungere livelli di risposta tumorale compatibili con terapie curative come la resezione del tumore o il trapianto».

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