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Come i colleghi farmacisti ben sanno, gli allarmismi sono infondati: il parallel trade – vale a dire la pratica di acquistare farmaci all’estero e rivenderli laddove i prezzi sono più alti, adeguandone le confezioni nella lingua locale – è assolutamente legale. Il fenomeno si è sviluppato negli ultimi 10-15 anni, sulla scorta della libera circolazione delle merci all’interno dell’Unione, arrivando nel 2012, secondo alcune stime, a rappresentare il 23% delle vendite totali di medicinali in Danimarca, il 10% in Svezia e circa il 10% in Germania e Regno Unito.
Ma il fatto che la pratica sia lecita, e non comporti rischi per la salute, non basta certo a esaurire la questione. Resta aperto il versante che gli economisti chiamerebbero analisi costi-benefici. Certo, il parallel trade comporta un guadagno monetario nel breve periodo. Guadagno che, è bene ricordare, avvantaggia soprattutto gli importatori paralleli e solo in misura molto minore i payers (pubblici e privati), mentre ai farmacisti restano le briciole. Ma qual è, nel medio e lungo periodo, l’impatto negativo dovuto a un cliente che non si fida più del proprio farmacista? Siamo in un’epoca in cui una foto o un commento possono essere diffusi istantaneamente a livello globale con un semplice clic, e in cui la possibilità di rettificare voci false spesso va ben più a rilento dei retweet e delle condivisioni su Facebook. Si può quantificare il danno reputazionale dovuto a episodi come questo? Interrogativi tutt’altro che banali, che non possono più essere trascurati.
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