
A spiegarlo è un’inchiesta pubblicata questa mattina da La Repubblica, che ripercorre il funzionamento del meccanismo: quando un farmaco viene approvato dalla European Medicines Agency, ciascun Paese membro dell’Unione tratta il costo dello stesso medicinale con l’azienda che lo produce. Il che crea differenze anche ampie tra i Paesi cosiddetti «periferici» e quelli settentrionali del continente: la Germania, ad esempio, paga i farmaci in media il 20-30% in più rispetto all’Italia, e questo spinge i distributori a cercare di vendere scorte più importanti proprio nella prima economia europea. «Ai produttori – spiega il quotidiano – non piace il parallel trade perché vogliono che i prezzi dei vari mercati siano rispettati». Ma «quando c’è da consegnare un prodotto a rischio esportazione si basano sui consumi dell’anno precedente», e se la richiesta nel frattempo cresce, «il medicinale non si trova più». In altre parole, le scorte vengono decise sulla base dei consumi passati, e se per qualche ragione la domanda da parte dei pazienti aumenta, esse si esauriscono velocemente. Così, a mancare all’appello pare siano 300 farmaci ogni anno in Italia. Una dinamica nota anche all’Aifa e al ministero della Salute, che eseguono controlli ma si trovano impossibilitati a contrastare «un fenomeno basato su una norma europea».
Secondo l’inchiesta, il tutto si risolve anche in un rimpallo di responsabilità, con le industrie che accusano i distributori e questi ultimi che puntano il dito contro alcuni farmacisti. Un’associazione di distributori dichiara che «il problema sono gli pseudogrossisti», facendo riferimento alle farmacie che ottengono le autorizzazioni necessarie per diventare distributori. «Secondo alcuni sono loro ad eccedere con il parallel trade», rileva il quotidiano, che cita l’opinione di Giancarlo Esperti, di Federfarma Servizi: «Come si fa ad essere distributori con un negozio di 30 metri quadri? Evidentemente questi esercizi commerciali esportano».
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