
La seconda proposta di miglioria più gettonata tra i colleghi è quella di maggiore equità e proporzionalità al reddito dei contributi da versare. «Sarebbe opportuno – dice un collega – che chi più guadagna più versi, è assurdo equiparare i versamenti di titolari di grandi farmacie, in termini di fatturato, a quelli di piccole farmacie di paesetti o di parafarmacie». Al terzo posto arriva poi l’extrema ratio: l’unico miglioramento possibile è l’abolizione dell’Enpaf. I farmacisti dipendenti, viene ricordato, già pagano l’Inps, i titolari possono anch’essi confluire in una cassa previdenziale già esistente. Più di un farmacista propone poi, se non altro, una quota annuale meno onerosa, e c’è anche chi chiede una rateizzazione delle quote e chi racconta di essersi addirittura dovuto indebitare per pagare quanto dovuto. Tutto ciò, viene sottolineato da diversi colleghi, a fronte di pensioni erogate che vengono considerate esigue e insufficienti a vivere dignitosamente, quando non vengono etichettate come una vera e propria «miseria». «Quando penso all’Enpaf – racconta un collega – mi viene in mente mio padre, il quale essendo stato titolare per ben 50 anni di una farmacia, e quindi non solo ha versato contributi e trattenute per gli stessi anni, ma addirittura per un quinquennio il doppio dei contributi, andando in pensione avrebbe dovuto campare con poco meno di 400 euro al mese». Particolarmente iniqua viene poi considerata la situazione, a livello di versamento contributivo, di chi già si trova in grande difficoltà perché senza lavoro. La proposta è «l’abrogazione della norma che prevede che il disoccupato iscritto all’Ordine debba continuare a pagare la quota» all’Enpaf. Infine, viene segnalata la necessità che l’ente migliori le relazioni con il pubblico e mostri maggiore apertura. In particolare, i colleghi chiedono un «call center che sia funzionante» e un aggiornamento periodico della situazione previdenziale degli iscritti, e «non farsi vivi solo quando c’è da incassare la quota annuale».
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