Con 46,5 milioni di smartphone e il 77% della popolazione che ne possiede uno (quinto stato al mondo), l’Italia si presta favorevolmente a un utilizzo diffuso delle app in medicina e in particolare nel controllo e nel trattamento del diabete. Come evidenziato dalla Società italiana di diabetologia (Sid) «una ricerca internazionale (Meltwater 2023) ha indicato tra le principali ragioni suggerite dagli utenti per usare Internet c’è la “ricerca di informazioni sulla salute” per il 34%. Un trend iniziato già nel 2021 quando app e devices erano usati da due italiani su 3 con l’obiettivo di monitorare la dieta, la pressione, il battito cardiaco e il ciclo mestruale».

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Il ruolo delle app nella prevenzione primaria. Come riferito dalla Sid, si tratta di un vero e proprio boom. In particolare «l’utilizzo del telefonino per monitorare aspetti legati alla salute tramite app era dell’8% nel 2019, balzato al 67% nel 2021 complice la pandemia. Anticipato dagli standard italiani per la cura del diabete mellito del 2018 che già sostenevano la necessità di counseling per il calo ponderale e l’avvento dell’attività fisica anche attraverso supporti tecnologici (social network, dvd e app). Le app possono avere un ruolo nella prevenzione primaria, rivolgendosi sia alla popolazione generale che a quella a rischio. Ma sono di valido aiuto anche nella prevenzione secondaria in termini di prevenzione delle complicanze».

Tra i problemi di accesso il digital divide. Ciò nonostante, la Sid ha precisato che «esistono ancora difficoltà di tipo gestionale, burocratico o logistiche, ma le app hanno ampi margini di diffusione anche perché economiche, flessibili e personalizzabili. Si sta però lavorando per superare i limiti come la certificazione delle app, i problemi della privacy e l’accesso da parte dei soggetti meno dotati di risorse cognitivi, di istruzione ed economiche che non godono di una connessione Internet tra cui la popolazione anziana che ancora conta il “digital divide”, ossia l’accesso alla banda ultra larga, pari a circa il 20-40% della popolazione. Secondo l’Istat più del 67% degli anziani infatti non saprebbe usare Internet». Inoltre «l’impossibilità o la difficoltà ad accedere a questi strumenti determina un danno socio-economico che aumenta povertà ed esclusione. Fattori sociali che già premono negativamente su molti pazienti penalizzati da determinanti sociali negativi».

Educazione al controllo del diabete. Secondo Federico Boscari, diabetologo presso l’azienda Ospedale-Università di Padova, «si tratta di un terreno particolarmente fertile e negli ultimi anni sono fiorite numerose soluzioni per affiancare i pazienti (e i loro medici) nella gestione della malattia. Le app possono registrare dati, orari dei pasti, incrociarli con l’attività fisica, rilevare parametri come la glicemia e monitorare l’aderenza alle terapie con messaggi di promemoria, e la possibilità di contatto con i curanti. In altri casi si sono rilevati efficaci interventi di “gamification” in cui le attività hanno un aspetto ludico con interazioni sociali virtuali». Per Boscari «giocare è un modo efficace per educare al controllo del diabete, permette di stabilire degli obiettivi da raggiungere e rendere l’esperienza più coinvolgente. Sfruttano in maniera pratica tecniche di psicologia cognitiva per aiutare a motivare le persone a modificare alcuni stili di vita, come ad esempio il rispetto di una corretta alimentazione e lo svolgimento di regolare attività fisica».

Il controllo del diabete con le app. Angelo Avogaro, presidente Sid, ha ricordato che «un’indagine presentata al congresso Panorama Diabete ha indicato che l’87,9% dei diabetologi ritiene che le app possano avere un ruolo nella prevenzione del diabete di tipo 2 ma solo al 14% capita di utilizzarle nei pazienti a rischio. Perché così pochi? Il 25,9% del campione non conosce app dedicate, il 23,5% ritiene che le app siano troppe e non certificate e il 38,8% ha difficoltà a valutare l’efficacia. Più diffuso invece l’uso delle app nei pazienti che hanno ricevuto una diagnosi: il 72,7% e consiglia nei pazienti con diabete di tipo 1, il 23,2% in quelli con diabete di tipo 2, l’11% solo se è il paziente a chiederlo».

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