Il via libera della Commissione Sanità del Senato al ddl Lorenzin segna il percorso che mi auguro il più rapido possibile di un provvedimento molto atteso che rafforza le garanzie per la tutela della salute dei cittadini.
Delega al Governo per la revisione della disciplina in materia di sperimentazione clinica dei medicinali per uso umano, destinata a spingere in avanti il riposizionamento della ricerca farmaceutica italiana in una logica moderna e competitiva, con particolare riferimento a farmacologia e studi clinici di genere; inserimento nei LEA delle prestazioni per il controllo del dolore da parto; riconoscimento delle professioni di biologo e psicologo nell’ambito di quelle sanitarie; disciplina dei percorsi formativi e delle attività di osteopata e chiropratico e, infine, ma non ultima, la riforma degli Ordini delle professioni sanitarie: sono questi i contenuti principali che fanno del ddl Lorenzin un concreto passo in avanti nella governance del sistema sanitario.
Il ddl rappresenta, dunque, una buona notizia per una estesa platea di operatori della sanità e, più in generale, per il sistema Paese al cui sviluppo sociale ed economico concorrono anche centinaia di migliaia di professionisti della salute. Gli effetti maggiormente significativi di questa legge, una volta approvata in via definitiva dai due rami del Parlamento, riguarderanno l’intera comunità che avrà maggiori garanzie e tutele per la qualità e l’appropriatezza delle prestazioni professionali. Infatti un capitolo di assoluto rilievo riguarda la riforma degli Ordini delle professioni sanitarie. Con riferimento sia a quelle storiche di medico chirurgo e odontoiatra, veterinario, farmacista, infermiere e ostetrica, che a quelle di biologo e psicologo, oltre a quelle di nuova istituzione.
Si è dibattuto per anni, dentro e fuori le sedi parlamentari, sulla effettiva utilità e funzione degli Ordini professionali e non si può dimenticare come si siano col tempo definite due distinte posizioni diverse e contrapposte. Chi sosteneva la necessità di abolire gli Ordini professionali perché ritenuti ormai anacronistici e frutto di un retaggio culturale superato quando addirittura dannoso per la libertà di esercizio della professione. Dall’altra parte c’era invece chi ne sosteneva la conservazione, ma a condizione di adeguarne la funzione pubblicistica di garanzia effettiva per la collettività, attraverso un sostanziale ammodernamento del quadro normativo di riferimento.
Oggi possiamo affermare che ha prevalso la seconda ipotesi e personalmente ne prendo atto con viva soddisfazione. Il Parlamento, infatti, ha messo mano alla legge che disciplina gli Ordini delle professioni sanitarie risalente al 1946 e al relativo regolamento del 1951. Dopo settant’anni, il lavoro in Commissione ha consentito di superare e correggere un impianto normativo datato, obsoleto, lacunoso e inadeguato che aveva progressivamente indebolito la funzione degli Ordini.
La definizione della natura giuridica che li identifica come enti di diritto pubblico non economico con funzioni sussidiarie dello Stato, l’assenza di oneri per il bilancio pubblico, l’allargamento della partecipazione dei professionisti rappresentati, le modalità di elezione degli organi di rappresentanza, la separazione della funzione di rappresentanza da quella disciplinare con la istituzione degli uffici istruttori, la partecipazione ai sistemi di adeguamento del patrimonio dei saperi attraverso il progetto di formazione continua e la revisione delle modalità di svolgimento degli esami di abilitazione, costituiscono aspetti importanti della Riforma che restano garanzia di qualità professionale a tutela della salute dei cittadini”.
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