parallel tradeNei giorni scorsi l’intera filiera del farmaco, a livello europeo, ha lanciato un’iniziativa con l’obiettivo di contrastare il fenomeno della carenza di farmaci. Aesgp, l’Eaepc, l’Eahp, la Gpie, l’Efpia, la Girp, Medicines for Europe e il Pharmaceutical Group of the European Union (Pgeu-Gpue) hanno firmato infatti un documento comune al fine di fornire una serie di raccomandazioni per fronteggiare la questione, chiedendo a tutti di essere particolarmente pronti nello scambiare reciprocamente informazioni. Ma ciò può bastare? Lo abbiamo chiesto a Fabrizio Gianfrate, docente di Economia sanitaria e farmaceutica.

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L’iniziativa dei rappresentanti della filiera del farmaco può essere risolutiva?
Risolutiva non direi. Scambiare informazioni significa acquisire conoscenze, ma non risolvere il problema. Può essere però utile per comprendere la dimensione del fenomeno.

Che oggi non è nota?
Quella della carenza di farmaci è una vicenda che ha bruciato a lungo sotto la cenere. Poi ogni tanto è venuta a galla perché ha riguardato qualche farmaco particolarmente importante per alcuni pazienti, o perché qualche associazione di categoria, o il ministero, o l’Aifa, ne hanno parlato. Quello che possiamo dire è che da quando esiste il fenomeno del cosiddetto “parallel trade”, che nel caso italiano può essere considerato come pura esportazione, il problema si è acuito. Senza dimenticare che a volte le industrie farmaceutiche immettono nel mercato un quantitativo determinato di farmaci, che non consente di “coprire” l’esportazione. Anche in questo caso legittimamente.

Cosa si può fare allora per contrastare le carenze di farmaci?
Non si tratta di una questione facile da risolvere. Innanzitutto dobbiamo verificarne le cause. A volte vengono prescritti dei farmaci che non sono più prodotti: in questi casi è sufficiente un aggiornamento da parte dei medici. Capita poi che le carenze possano essere dovute a problemi di produzione da parte delle aziende. Ciò perché il sistema spesso è centralizzato a livello internazionale, il che significa che qualora ci sia un problema in un sito specifico, magari in una nazione lontana, esso si ripercuote ovunque. Infine c’è il parallel trade, che consiste nella decisione da parte di un grossista o di alcune grandi farmacie autorizzate ad operare anche come distributori intermedi, a vendere all’estero anziché in Italia, perché più conveniente. Il problema è che tutto ciò è perfettamente legale. Anzi, non è solo permesso, ma addirittura incentivato dall’Unione europea, in nome del libero scambio delle merci e della concorrenza.

Dunque è colpa dell’Europa?
È una tipica distorsione del mercato che alla fine porta gli operatori economici a fare delle scelte conseguenti. Non me la sento sinceramente di biasimare un imprenditore che prende delle decisioni lecite e utili per l’azienda. Occorrerebbe però anche operare secondo principi etici, visto che parliamo di farmaci…
Sì ma questo significa appellarsi alle decisioni del singolo. Ci vorrebbe un cambiamento delle regole a livello europeo e un eventuale recepimento nei Paesi membri. Quello del farmaco è uno dei settori più regolamentati, ma se una nazione oggi volesse tentare di introdurre norme per impedire il parallel trade, rischierebbe di scontrarsi con la disciplina comunitaria. Il ministro Lorenzin ha provato a fare un tavolo di coordinamento e un documento di “buone intenzioni”, ma poi se gli operatori non seguono le indicazioni, visto che possono farlo in modo lecito? Ripeto: qui il problema è che regole di libero mercato sono di fatto in contraddizione con l’esigenza di avere farmaci reperibili sul territorio.

Lei cosa suggerisce?
Non potendo adottare soluzioni strutturali, salvo a livello europeo, si possono tentare delle soluzioni tattiche. Si possono ad esempio immaginare sistemi di sconti per i prodotti che rimangono sul territorio, coinvolgendo anche le dogane, per fare in modo che ai grossisti mantenere il farmaco in Italia possa risultare conveniente, o almeno parimenti interessante, rispetto all’esportazione.

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