I fatti in causa risalgono a data non successiva al 2003 quando taluni pazienti di un medico che aveva loro prescritto preparati galenici a scopo dimagrante avevano accusato lievi disturbi cessati con l’interruzione della cura.
Tuttavia la denuncia di alcuni di questi pazienti aveva portato all’apertura di un procedimento penale nei confronti del medico e del farmacista. Mentre il primo ha ritenuto di patteggiare, il farmacista si è difeso sostenendo che aveva diligentemente spedito le numerose prescrizioni magistrali perché contenenti sostanze la cui utilizzazione era consentita dalla vigente normativa.
Dopo lungo processo il farmacista era stato condannato in quanto il giudice del Tribunale di Novara, sezione distaccata di Borgomanero, ha ritenuto che “il farmacista non poteva ignorare che, in quelle centinaia di pazienti, anche se da lui non conosciuti, solo pochissimi potevano essere effettivamente obesi” così disattendendo la tesi sostenuta dall’imputato, supportato dal consulente tecnico Prof.ssa Paola Minghetti, secondo la quale il farmacista non può sindacare nel merito le scelte terapeutiche del medico ed è inoltre obbligato ope legis (ex art. 38 R.D. 1706 del 30.9.1938) alla spedizione delle ricette.
Secondo il giudice questo principio generale non sarebbe applicabile di fronte ad una serie elevata di prescrizioni non saltuarie la cui spedizione, per di più, era stata rifiutata da altri farmacisti per “ragioni di prudenza”.
Di qui la condanna per lesioni e per altri reati tra i quali quello di aver illecitamente prodotto e venduto anche sostanze stupefacenti senza avere verificato la loro reale efficacia terapeutica unitamente alla potenziale lesività, dunque da considerare guaste o imperfette.
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Nonostante il reato fosse prescritto e quindi fosse più semplice dichiararne l’estinzione, il farmacista ha deciso di ricorrere presso la Corte d’Appello di Torino che ha affermato che non è possibile concordare con le conclusioni del Giudice di primo grado, argomentando che la Suprema Corte (C. Cass., Sez. 3 Civile, sentenza n.15734 del 27-5-2010) ha ritenuto che “la responsabilità del farmacista deve essere esclusa quando lo stesso si attiene alle prescrizioni mediche contenute nella ricetta” compilata dal professionista abilitato; “il farmacista non ha il compito di verificare se la posologia del farmaco prescritto sia effettivamente corrispondente alle necessità terapeutiche della cura occorrente, in quanto egli, non abilitato all’esercizio della professione medica, non è tenuto, né autorizzato a sindacare il trattamento terapeutico o farmacologico, né a controllare l’eventuale dissonanza tra la cura occorrente e le indicazioni della ricetta, a questa avendo l’obbligo di attenersi scrupolosamente”.
Ora, a fronte delle ricette ricevute, di cui il medico curante aveva la responsabilità, il farmacista non aveva l’obbligo di controllare se il trattamento terapeutico fosse effettivamente adatto ai pazienti ai quali erano prescritti, pazienti che nemmeno conosceva, né se gli stessi fossero o meno obesi in modo patologico, né il solo dato della quantità delle ricette o delle modalità di spedizione delle stesse (n.d.r. per posta) è atto a provare altrimenti un concorso con il medico: era ben possibile che il medico avesse molti pazienti obesi e si rivolgesse al laboratorio dell’imputato in quanto appunto tra i pochi in grado di effettuare la preparazione.
Né occorre interrogarsi sull’eventuale sussistenza di profili di colpa nella condotta tenuta dall’imputato, non sussistendo in tutta evidenza il dolo per l’integrazione dei reati ascritti. In quanto al reato di cui all’art. 443 c.p. (n.d.r. Commercio o somministrazione di medicinali guasti) non può ritenersi provato che l’imputato fosse a conoscenza dell’ineffettività della cura e quindi dell’eventuale qualificabilità dei medicinali come imperfetti.
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