«Considerati a pieno titolo farmaci tradizionali nella cura delle malattie a base infiammatoria, i cortisonici si sono confermati un’efficace arma contro le forme gravi di Covid-19 e il loro impiego in patologie come il cancro e l’Alzheimer rappresenta un ulteriore campo di applicazione. Il principale problema resta quello dei gravi effetti collaterali associati al trattamento a lungo termine». È uno dei temi trattati in occasione del World congress on inflammation (Wci) 2022, in programma a Roma dal 5 all’8 giugno 2022, evento organizzato dalla Società italiana di farmacologia (Sif) insieme all’International association of inflammation societies (Iais), con una lettura plenaria dal titolo “Glucorticoidi e infiammazione”.

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L’utilizzo dei farmaci cortisonici

Secondo quanto evidenzia la Sif «a distanza di oltre settant’anni dal loro primo utilizzo, i farmaci cortisonici (corticosteroidi) costituiscono ancora oggi a pieno titolo uno dei trattamenti più efficaci ed utilizzati nella cura delle malattie a base infiammatoria». Ancora oggi «i farmaci cortisonici sono tra i più utilizzati nel trattamento di numerose malattie croniche, così come di molteplici patologie gravi, in cui il sistema infiammatorio ed autoimmunitario giocano un ruolo chiave. Comune è il loro impiego, come ricorda la Sif, «nelle malattie infiammatorie dell’intestino, tra cui la colite ulcerosa e il morbo di chron; nelle malattie reumatiche, come l’artrite reumatoide (ra) e il lupus eritomatoso sistemico (les); e nell’epatite autoimmune». Ciò nonostante «già prima della pandemia, questo gruppo di farmaci era stato ampiamente utilizzato nel trattamento di altre patologie strettamente correlate al Covid-19, come la sindrome respiratoria acuta grave (Sars) e la sindrome respiratoria medio-orientale (Mers)». Quanto ai recenti sviluppi sul campo «di particolare interesse è la loro azione nella regolazione della morte cellulare (apoptosi), un fenomeno associato a malattie come l’Alzheimer e i tumori». Non mancano però i problemi, come sottolinea la Sif: «Il problema principale legato all’uso di questi “vecchi” farmaci resta quello dei gravi effetti avversi associati al trattamento a lungo termine e che possono potenzialmente coinvolgere tutti gli organi e tessuti».

Farmaci per uso acuto e cronico

Carlo Riccardi, già presidente della Società italiana di farmacologia (Sif) e docente di Farmacologia all’Università di Perugia, ricorda che «questi farmaci sono dei potenti antinfiammatori e immunosoppressivi, in quanto hanno la capacità di inibire quei processi cellulari che portano alla sintesi di sostanze pro-infiammatorie e immunostimolanti e, allo stesso tempo, favorire la sintesi di sostanze antinfiammatorie. Il risultato finale è l’inibizione di tutti quegli eventi che nell’infiammazione e nelle risposte immunitarie generalizzate sono responsabili della malattia». Sul ruolo nei differenti casi d’uso, Riccardi evidenzia che «se, in generale, i cortisonici possono essere considerati, di fatto, dei salvavita in caso di infiammazione acuta e in situazioni di emergenza, questo vale anche per le forme più severe di Covid-19, tanto che l’Agenzia italiana del farmaco ne ha raccomandato l’uso in pazienti gravi che richiedono l’ossigenoterapia, in presenza o meno di ventilazione meccanica». Secondo l’esperto si tratta di «tutte condizioni in cui il processo infiammatorio è fortemente alterato e danneggia l’apparato respiratorio del paziente, come avviene nel Covid-19: dove, nei casi più gravi, la malattia può sfociare in manifestazioni cliniche severe, come la sindrome da distress respiratorio acuto (ADRS): un fenomeno durante il quale l’organismo sviluppa una risposta infiammatoria molto elevata associata alla cosiddetta ‘tempesta citochinica’, che si caratterizza per una massiva produzione di molecole infiammatorie (citochine). Per contrastare ciò è stato proposto l’utilizzo dei cortisonici allo scopo di inibire così la risposta infiammatoria».

Gli studi clinici disponibili

Per Riccardi «le prove ad oggi disponibili, oltre a diversi studi clinici, riportano un effetto protettivo da parte dei farmaci cortisonici in termini di mortalità in soggetti con patologia grave da Covid-19. Non sono ancora, invece, disponibili prove sulla loro sicurezza e sull’efficacia nel trattamento dei pazienti con Covid-19 in fase precoce e non ospedalizzati». Tali farmaci «sono in grado di modulare la morte cellulare, ovvero di indurre o proteggere da essa. Questo effetto per lunghi anni non è stato sufficientemente studiato, mentre invece rappresenta uno dei loro meccanismi principali e riguarda i più diversi tipi di cellule e tessuti (linfociti T e B, granulociti ed altre cellule del sistema infiammatorio ed immunitario), tra cui anche le cellule neuronali. In questo caso, infatti, alcuni degli effetti dei corticosteroidi sulla memoria e sui processi cognitivi sono attribuibili, almeno in parte, alla loro capacità di regolare la morte cellulare e la neurogenesi”. Da qui la possibilità del loro impiego nel trattamento dell’Alzheimer: “Anche nel caso di questa patologia, ci troviamo in presenza di una componente infiammatoria e, di conseguenza, è possibile l’utilizzo di farmaci antinfiammatori. Sempre in virtù di questo meccanismo di regolazione della morte cellulare, i corticosteroidi rivestono un importante ruolo nel trattamento di diversi tumori, tra cui leucemie, linfomi e mielomi”.

L’uso nel trattamento prolungato

Quanto al trattamento prolungato sul paziente cronico «può causare effetti collaterali avversi tali da determinare l’interruzione della terapia. A ciò si aggiunge il fatto che i corticosteroidi possono indurre resistenza al trattamento in molti organi e tessuti e anche dipendenza, tanto che in alcuni casi, come nelle malattie infiammatorie intestinali, non è possibile sospendere la terapia. Bisogna, infine, tener presente la variabilità e l’imprevedibilità della risposta terapeutica: la suscettibilità delle diverse cellule del sistema infiammatorio nei differenti tessuti varia nello stesso individuo e differisce, ad esempio, sulla base del genere, oltre ad essere influenzata dalla presenza di altri segnali, dal grado di attivazione e differenziazione delle cellule bersaglio».

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