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«Fino a quando non saranno resi disponibili standard di qualità più rigorosi e l’introduzione di nuovi ed affidabili test che valuteranno l’intercambiabilità dei prodotti a base di levotiroxina, è opportuno, nel migliore interesse del paziente, continuare a ritenerli prodotti unici non sostituibili, come raccomandano le principali società scientifiche internazionali e molte agenzie regolatorie di diversi Paesi», sostengono i presidenti di Ait (Associazione italiana della tiroide), Ame (Associazione medici endocrinologi), Sie (Società italiana di endocrinologia) e Siedp (Società italiana di endocrinologia e diabetologia pediatrica). In occasione del 7° Congresso nazionale dell’Ait tenutosi nei giorni scorsi particolare rilevanza è stata data a un documento siglato dalle quattro società scientifiche in seguito alla decisione dell’Aifa. «Nel corso degli ultimi anni diverse agenzie regolatorie europee hanno ricevuto un aumento del numero di segnalazioni da parte di medici e pazienti relative a incongruenze nella qualità e nell’efficacia dei diversi prodotti a base di levotiroxina», afferma il documento, che sottolinea come per questo motivo alcune abbiano raccomandato o disposto la non intercambiabilità dei prodotti, come ad esempio in Francia e in Spagna. Negli Stati Uniti, invece, riferiscono le quattro associazioni, le società scientifiche di riferimento per le malattie della tiroide, cioè l’AACE – American Association of Clinical Endocrinology, ATA – American Thyroid Association, e TES – The Endocrine Society, hanno raccomandato che i pazienti in corso di terapia con levotiroxina sodica siano mantenuti in trattamento con lo stesso prodotto, anche quando il medico curante ne modifichi il dosaggio, e nel caso la preparazione venga cambiata, che si controllino TSH e FT4 entro 6 settimane.
Di tutt’altro avviso è invece AssoGenerici, che per bocca del presidente Enrique Häusermann replica che «eventuali differenze in campo clinico, se concrete, devono essere documentate e comunque tutto questo riguarderebbe il cambiamento del farmaco nei pazienti già in terapia, mentre non ha alcun riflesso su chi comincia il trattamento, che può indifferentemente cominciare con il generico o con il branded». Secondo il numero uno dell’Associazione nazionale industrie farmaci generici «non è corretto dire che il generico, in questo caso della tiroxina – ma il discorso vale per qualsiasi medicinale generico – non ha provato la sua equivalenza. L’equivalenza, se il farmaco è stato autorizzato, è già provata in base ai criteri universalmente accettati da tutte le agenzie regolatorie del mondo; se invece si tratta di differenze in ambito clinico, cioè nell’impiego su un vasto numero di pazienti, sarebbe il caso di provarle dati alla mano». AssoGenerici sostiene di aver sempre concordato sul fatto che, soprattutto quando si tratta di pazienti complessi, sia bene proseguire con lo stesso farmaco ed eventuali cambiamenti vadano adeguatamente monitorati, «ma questo nulla ha a che vedere con il fatto che quando la terapia viene avviata si può cominciare senza timori di sorta con il farmaco equivalente».
Secondo le associazioni mediche, invece, con l’equivalente non ci sarebbero rischi solo per la salute, ma anche per le casse pubbliche, connessi al test ormonale previsto dall’Aifa in caso di passaggio al nuovo farmaco. «L’equivalente è considerato tale se ha una biodisponibilità maggiore o minore del 20% rispetto all’originale – spiega Roberto Castello, presidente dell’Associazione medici endocrinologici –, una differenza che nel caso delle malattie della tiroide, dove è fondamentale la precisione dei livelli ormonali che si ottengono, si traduce in variazioni dell’efficacia. In più abbiamo stimato che il generico farebbe risparmiare circa 30 milioni di euro l’anno, ma per i test aggiuntivi servirà una cifra tra i 20 e i 40 milioni in più».
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