La IV sezione del Consiglio di Stato, con l’Ordinanza n. 2583 del 13 marzo 2023, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’Art. 36, commi da 1 a 3, della L. n. 449 del 1997. Con tali norme, il legislatore aveva introdotto una nuova disciplina dei criteri di determinazione del prezzo dei farmaci ma aveva anche riconosciuto validità ed efficacia, fino al 15 luglio 1998, ai criteri di determinazione del prezzo stabiliti con la deliberazione Cipe del 25 febbraio 1994. Si era trattato, in buona sostanza, di una legge di sanatoria di un atto annullato dal giudice amministrativo, perché la delibera in questione era stata annullata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 118 del 1997, sentenza che, tuttavia, non era passata in giudicato perché – al momento dell’entrata in vigore della norma – pendeva il ricorso per cassazione ai sensi dell’Art. 11 Cost. La norma in questione è retroattiva perché dichiaratamente interpretativa.

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Rilevanza della questione di legittimità

In primo grado, il Tar aveva escluso la rilevanza della questione di legittimità costituzionale della norma in parola proprio perché il giudicato non si era ancora formato, in applicazione dell’orientamento secondo cui – come ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale – il legislatore può intervenire, anche con norme retroattive – di sanatoria e interpretative –, quando sia necessario assicurare una copertura normativa in settori determinati e non vi sia la diretta specifica intenzione di vanificare un giudicato. Il Consiglio di Stato, invece, ha ritenuto che la questione di legittimità costituzionale fosse rilevante proprio per la sua attitudine a incidere su un giudizio in corso.

La precedente pronuncia del Consiglio di Stato

In primo luogo, la IV sezione ha osservato che, al momento in cui la norma “interpretativa” è stata adottata non esisteva alcun contrasto giurisprudenziale, bensì esclusivamente la pronuncia del Consiglio di Stato, n. 118 del 1997, che la scelta imposta dalla legge interpretativa non era in alcun modo ricavabile dall’Art. 8 della L. n. 537 del 1993, e che, in realtà, le norme sospette di incostituzionalità hanno semplicemente svolto una funzione di sanatoria, dando copertura legislativa a una fonte regolamentare annullata dal Consiglio di Stato per violazione di legge. Ciò costituisce un primo indizio di un uso non corretto del potere legislativo, benché non di per sé risolutivo, dal momento che una disposizione innovativa con effetti retroattivi, ancorché qualificata di interpretazione autentica, non è, di per sé e in quanto tale, costituzionalmente illegittima.

Esigenza di tutelare i princìpi

Tuttavia, prosegue il Consiglio di Stato, la retroattività deve trovare adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare princìpi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale”, ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Corte costituzionale, sentenze n. 78 del 2012 e n. 311 del 2009). E i soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso (sentenze n. 174 e n. 108 del 2019, n. 170 del 2013): l’efficacia retroattiva della legge, finalizzata a preservare l’interesse economico dello Stato che sia parte di giudizi in corso, si pone infatti in contrasto con il principio di parità delle armi nel processo e con le attribuzioni costituzionalmente riservate all’autorità giudiziaria (Corte costituzionale, sentenze n. 12 del 2018 e n. 209 del 2010). Nel caso di specie, invece, l’unica motivazione della legge di interpretazione autentica – come si evince dai lavori parlamentari – sembra essere quella di incidere sul giudizio di annullamento della delibera del Cipe del 25 febbraio 1994, e sulle sue potenziali conseguenze di carattere finanziario. Si rimanda al dispositivo integrale nella sezione “Documenti allegati”.

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