Il consolidamento dell’utilizzo in Italia della Cannabis per uso terapeutico ha senza dubbio spostato l’attenzione sul settore della galenica da parte di molti farmacisti interessati all’attività di preparazione. Tuttavia, l’allestimento dei preparati a base di Cannabis ha messo i professionisti di fronte a diverse questioni da affrontare. Tra queste, gli aspetti culturali, formativi, la diversa natura della pianta, rispetto ai principi attivi prodotti industrialmente, ma anche problematiche di natura logistica come la carenza del fiore. Partendo da quest’ultimo aspetto, FarmaciaVirtuale.it ha fatto il punto con Marco Ternelli, farmacista preparatore specializzato nella pratica galenica della Cannabis medicinale.
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Si può dire risolto il problema della carenza di Cannabis?
«Se due anni fa ci fu la mancanza totale di Cannabis, lo stesso oggi non si può dire. Tuttavia, siamo in una situazione in cui c’è carenza di alcune varietà. Il ministero ha suddiviso la Cannabis in tre grandi macro categorie: quella ad alto contenuto di THC, a contenuto simile di THC e CBD ed infine ad alto contenuto di CBD. Nell’ambito di ogni categoria vi sono determinate varietà, che, a parità di concentrazione di principio attivo, presentano caratteristiche differenti che incidono sull’aspetto terapeutico e farmacologico, soprattutto per le componenti presenti nel fitocomplesso. Nell’ambito di queste varietà, ce ne sono alcune che presentano quote di import più alte, mentre altre sono importate pochissimo. Dunque, i pazienti che usano una determinata varietà che gode di particolari peculiarità, a volte si trovano di fronte ad una carenza.»
Il problema è in Italia?
«La carenza può essere dovuta al fatto che una nazione da cui l’Italia dovrebbe ottenere determinati quantitativi di Cannabis può fornire un’effettiva quantità di prodotto sulla base di quella che ha disponibile in un dato momento. Ciò perché ne ha prodotta di più, rispetto ad un’altra, ne ha prodotta di meno, perché un raccolto non è andato bene, o per il motivo di aver appena rifornito un altro paese con grandi quantitativi che hanno limitato la disponibilità di una varietà.»
Vi è un uso consapevole della Cannabis terapeutica da parte dei pazienti e dei professionisti sanitari?
«Sono stati fatti molti passi avanti. Il ministero della Salute ha organizzato un corso di Formazione a distanza (Fad) lo scorso anno. Inoltre, ci sono vari corsi, Ecm e non, di aziende o organismi privati, eventi singoli, organizzati da Ordini professionali. In generale, dal lato del medico si assiste ad un miglioramento dal punto di vista della disponibilità a prescrivere Cannabis, magari anche senza una piena consapevolezza, perché è innegabile che è complicato. Ci sono ancora visioni conservative, ma non è come tre anni fa. Tra i motivi per cui si è diffuso l’uso vi è certamente quello della remunerazione della Cannabis terapeutica da parte delle Regioni. Il medico, infatti, oltre ad essere supportato da prove di efficacia che ne garantiscono la rimborsabilità, dispone anche di strumenti informativi come modalità di prescrizione, indicazioni, e quanto altro possa essergli utile nell’attività professionale.»
Quali usi terapeutici della Cannabis si sono affermati rispetto ad altri?
«Sclerosi multipla, dolore oncologico e cronico, cachessia (in anoressia, Hiv, chemioterapia), vomito e inappetenza da chemioterapici, glaucoma, sindrome di Tourette, sono quelli previsti dal decreto. Gli usi più consolidati sono nella sclerosi multipla, gestione della terapia del dolore e in ambito oncologico, come nausea e vomito. In coda si ha l’uso nel glaucoma, sindrome di Tourette ed in ultimo cachessia. Negli Usa è stato recentemente approvato il farmaco Epidiolex®, a base di cannabidiolo, per l’epilessia resistente nei bambini.»
Altri usi che ne vengono fatti?
I pazienti ne trovano beneficio in diverse patologie come distonie, che coinvolgono il sistema muscolo scheletrico, ma anche in sindrome delle gambe senza riposo, fibromialgia, malattia di Parkinson, Sla e malattia di Alzheimer, nella gestione cognitivo-comportamentale.
Con l’utilizzo della Cannabis i pazienti riescono a modificare la terapia farmacologica principale?
La gestione può essere complicata perché ogni patologia necessita un dosaggio corretto, se parliamo di olio o di cartine o bustine. Inoltre, vi è il fatto che il medico deve seguire bene il paziente soprattutto nelle prime settimane. Vale a dire la fase di titolazione del dosaggio sul paziente. Si parte da un dosaggio minimo che si deve incrementare. Inoltre vanno considerati altri aspetti. Il paziente è autonomo? Aderisce alla terapia? Viene seguito da un familiare? È diverso dai farmaco industriale perché i cannabinoidi devono sviluppare tolleranza. Magari il paziente prende altri farmaci e dunque bisogna controllare che non vi siano interazioni. Quanto alla riduzione della terapia principale, anche in questo caso i quesiti sono molti. Quale farmaco riduco? Quale per primo? Di quanto? Dopo quanto tempo? Sono cose certamente fattibili per un medico che si dedica interamente alla Cannabis, ma si deve considerare che l’uso terapeutico della Cannabis richiede un contatto continuo con il paziente a causa della titolazione. Ci vuole molta attenzione, cura, pazienza, ma soprattutto tempo.
Esiste una forma farmaceutica di elezione per la Cannabis?
La forma farmaceutica migliore in assoluto per la somministrazione della Cannabis dal punto di vista del paziente è la vaporizzazione. Per assumere la Cannabis ad uso terapeutico nel migliore dei modi possibili essa va vaporizzata. La vaporizzazione permette di assumere tutte le sostanze, avere una risposta veloce per capire se la dose è efficace o meno. Ciò a patto di usare Cannabis terapeutica standardizzata ed un vaporizzatore che permetta di gestire temperatura e quantità di estratto. Come si può intuire, se da un lato la vaporizzazione è la modalità migliore, dall’altro è anche la più complicata e dispendiosa perché richiede che il paziente acquisti un vaporizzatore che deve essere tra quelli farmaceutici certificati, non quelli che si usano per uso voluttuario. In aggiunta a ciò, il paziente deve imparare bene ad usarlo e capire come funziona. Dopo la vaporizzazione c’è l’olio di Cannabis, inteso come prodotto di grado farmaceutico standardizzato, che il paziente assume per via sublinguale. Il vantaggio, in questo caso, è che il l’utilizzatore apre il farmaco e prende le gocce.
Quanto incide l’aspetto professionale del farmacista sulla qualità del preparato?
Nel caso della Cannabis è presente una maggiore complessità, ovvero che non si parte da un principio attivo in milligrammi sotto forma di polvere o diversa forma farmaceutica. Tolte le cartine della vaporizzazione, il farmacista deve gestire una materia prima la cui chimica cambia a seconda di come viene lavorata. Su cento farmacisti che partono dallo stesso identico fiore, con la stessa identica titolazione, senza variazioni di principio attivo, ogni farmacista potrebbe ottenere differenti quantità di principio attivo estratto. Ciò considerando inoltre che la Cannabis contiene anche altre componenti oltre al Thc, tra cui Cbd e terpeni, interessanti dal punto di vista terapeutico. Ne consegue che il farmacista preparatore ha una enorme responsabilità.
È adeguato il panorama formativo sulla Cannabis e, più in generale, sulla galenica?
I corsi di galenica non sono tutti uguali. Ci sono corsi più o meno validi. Il fatto che un farmacista abbia frequentato un corso, inoltre, non vuol dire che ciò possa essere sufficiente. Una volta che il farmacista è formato, chi è che viene a verificare che effettivamente la formazione sia stata adeguata? In aggiunta a ciò, in Italia, a differenza degli Stati Uniti, non vi è un sistema di controllo o di certificazione. Questo è un discorso che esula dalla Cannabis e va fatto sull’intero panorama formativo.
La galenica può essere considerata come un’alternativa per differenziare l’attività professionale o è meglio starne alla larga se la si vede solo come un’opportunità commerciale?
Sono dell’idea che bisognerebbe impedire di fare galenica a chi la vede esclusivamente sotto il profilo commerciale ed imprenditoriale. Quando è stata approvata la nuova Tariffa nazionale, un problema che sorse e in parte sta rientrando, è stato l’aumento della galenica negli anni successivi perché tutti pensavano che si guadagnasse. Nel momento in cui i colleghi hanno visto che non è proprio come pensavano, le cose sono cambiate.
Ci spiega meglio?
La galenica dovrebbe essere una specializzazione della facoltà di farmacia. Così come c’è la specializzazione in farmacia ospedaliera, allo stesso modo dovrebbe essere istituita una specializzazione in galenica di due anni. Lo studente di farmacia dovrebbe studiare sei mesi di galenica durante il corso di laurea quinquennale. Poi, se il farmacista desidera dedicarsi all’allestimento di farmaci che egli preparerà per il cuore di un bambino in braccio ad un papà che entra nella sua attività, allora è un altro discorso. Se un farmacista ha una vocazione per la galenica, allora specializzarsi due anni in tale disciplina non è vista come un male ma come un fatto positivo. Se il farmacista consegue la specializzazione, allora può fare galenica. Diversamente, in un laboratorio galenico non potrebbe entrare. Vorrebbe dire però riformare i corsi di laurea. E ciò non è facile.
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