Il dibattito sulla possibile liberalizzazione dei farmaci di Fascia C con ricetta ormai da mesi infiamma gli animi e occupa le pagine dei giornali, anche non di settore, e questo è comprensibile: in ballo ci sono sia interessi economici che il ruolo del farmacista nelle croci verdi e nelle parafarmacie. In Parlamento sull’argomento si sono divise le diverse parti politiche, e anche le coalizioni internamente o addirittura i partiti stessi. La ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi inizialmente sembrava favorevole alla liberalizzazione, ma il provvedimento è stato poi stralciato dal tanto discusso ddl Concorrenza, perlopiù per l’opposizione del Nuovo Centrodestra. Non mancano però i tentativi di farlo rientrare dalla finestra attraverso emendamenti presentati da esponenti di diverso colore, di Scelta civica, in primis, passando per il Pd e il M5S. Fiumi di inchiostro sono stati impiegati per sostenere le ragioni dei fautori e dei detrattori della liberalizzazione della Fascia C; avere una posizione partigiana è legittimo, anche per un organo di stampa, ma stupisce quando la campagna poggia su dati “fantasiosi”.
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L’esempio è un articolo pubblicato nei giorni scorsi dal principale quotidiano nazionale, La Repubblica, che in un’inchiesta dedicata alle liberalizzazioni, nella parte relativa ai farmaci, arriva a parlare di una confezione di Vivin C venduta in farmacia a 16,90 euro. “Un furto. Dal 2007, infatti, non c’è più il prezzo massimo di vendita. Il farmacista decide”, scrive il giornale fondato da Scalfari. Non si cita dove ciò sarebbe accaduto, perciò risulta difficile verificare l’episodio. Per carità, tutto può essere e i disonesti si nascondono in ogni categoria, ma il caso, seppur volutamente presentato come esempio limite, rischia di falsare il dibattito su una questione che nel settore è invece molto sentita. Il servizio prospetta poco velatamente i vantaggi dell’apertura dei mercati citando il Fondo monetario internazionale, per il quale “un’accelerazione della concorrenza porterebbe ad una crescita per l’Italia del 3,5% in 5 anni e del 7,5% sul lungo termine”, e parlando in specifico del comparto afferma che con la liberalizzazione voluta da Bersani e l’avvento delle parafarmacie ci sarebbero stati “8mila nuovi posti di lavoro sbloccati nel settore”, senza però fare alcun riferimento alla fonte di questo dato e al periodo preso in considerazione.
Altrettanto vale anche per altri dati: il quotidiano sostiene che “i prodotti di Fascia C con obbligo di prescrizione, con 2,9 miliardi di euro rappresentano il 16% del mercato farmaceutico totale. Contro il 70% dei farmaci di Fascia A vendibili solo in farmacia (con obbligo di ricetta, ritenuti essenziali e per questo rimborsati dal Servizio sanitario nazionale) e il 14% dei farmaci di Fascia C senza obbligo di ricetta già liberalizzati. Si svincolerebbero dunque il 30% dei prodotti. Non molto. Non abbastanza, forse, da giustificare un’ecatombe delle farmacie”. E ancora, si afferma che “i farmaci di Fascia C con ricetta hanno un prezzo medio di 11,8 euro, 3,7 euro in più rispetto ai prodotti già liberalizzati”, ma senza entrare nel merito delle differenze tra farmaci vendibili con e senza prescrizione che potrebbero influire sul prezzo al pubblico. L’argomento è poi usato per arrivare a una conclusione: “pur di risparmiare sui medicinali – scrive Repubblica – si assiste al fenomeno dei contrabbandieri o dei gruppi d’acquisto. Guidati dal guadagno gli uni e dal risparmio collettivo gli altri, lista della spesa alla mano, si viaggia per chilometri per arrivare in Francia e pagare una Tachipirina quattro volte meno. O peggio, è in fase emergente il fenomeno delle farmacie on-line illegali. Per eludere la ricetta e per risparmiare si ricorre al web con grandi rischi per la salute”. Come a dire che grazie alla liberalizzazione questi “mercati paralleli” sparirebbero; un sofisma che come tale in apparenza sembra logico, ma di fatto è sostanzialmente fallace.
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