dpc campaniaIl Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha respinto il ricorso proposto da Federfama Nazionale insieme alle associazioni della Campania, di Avellino, Benevento e Caserta, nel quale si chiedeva «l’annullamento del decreto n. 97/2016 avente ad oggetto “Distribuzione dei farmaci in nome e per conto. Definizione dell’elenco unico, della tariffa massima di remunerazione e di altre regole per la disciplina uniforme del servizio a livello regionale” e di ogni altro atto, precedente, connesso e conseguente, con particolare riferimento al decreto del Commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro dai disavanzi del Settore Sanitario nella Regione Campania n. 66/2016».
Il decreto, si legge nella sentenza, «ha inteso rendere uniforme la regolamentazione in tutto il territorio regionale, con particolare riferimento alla individuazione dell’elenco unico regionale dei farmaci da erogare “per conto” delle Aziende Sanitarie e alla fissazione della tariffa massima da riconoscere per la remunerazione del processo distributivo del farmaco in DPC (fissata con il provvedimento impugnato in euro 6,00 oltre Iva per ciascuna confezione di farmaco distribuita e di euro 1,50 oltre Iva nel caso delle farmacie rurali sussidiate). In proposito si è dato atto che sulla spesa farmaceutica incide, oltre all’inappropriatezza prescrittiva dei farmaci anche il costo della “distribuzione in convenzione” dei farmaci inseriti nel PHT, ovvero gli oneri connessi alla dispensazione per il tramite delle farmacie convenzionate dislocate sul territorio che effettuano la vendita al banco con la propria organizzazione, mediante acquisto dei farmaci dalle aziende farmaceutiche, successiva rivendita e rimborso a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Pertanto, la Regione Campania ha inteso potenziare il sistema della “distribuzione diretta” di tali farmaci poiché, per economie di scala, l’acquisto da parte delle AA.SS.LL. presso le aziende farmaceutiche avviene ad un prezzo più basso, tenuto conto dei quantitativi maggiori acquistati rispetto a quelli delle farmacie convenzionate».
Federfarma aveva lamentato che «il DCA impugnato non sarebbe stato preceduto da un previo accordo con i farmacisti e con le loro associazioni professionali. L’omissione di tale interlocuzione procedimentale non avrebbe consentito alle associazioni di categoria di esprimersi in ordine a profili centrali disciplinati in modo unilaterale dalla struttura commissariale». Secondo i giudici «la censura è infondata», perché con il decreto l’amministrazione «ha inteso perseguire l’obiettivo di una regolamentazione uniforme della DPC tra tutte le Aziende Sanitarie operanti sul territorio». «Dall’esame del provvedimento – specifica il Tar – risulta che, ad eccezione dell’A.S.L. di Salerno, attualmente priva di accordo di DPC, le altre Aziende Sanitarie campane hanno stipulato accordi con le associazioni provinciali di farmacisti. Ebbene, il decreto impugnato non mette in discussione il presupposto normativo costituito dall’adesione su base volontaria e non coattiva dei titolari delle farmacie al servizio di DPC, considerazione che consente di dequotare le censure che attengono alla determinazione unilaterale delle relative disposizioni, potendo le farmacie convenzionate, qualora ne ravvisino l’antieconomicità, sottrarsi alla DPC. In altri termini, il DCA n. 97/2016 introduce una regolamentazione uniforme destinata ad essere recepita negli accordi locali di DPC, non in misura unilaterale ed autoritativa ma previo accordo con le locali associazioni». I ricorrenti lamentavano anche «che il Commissario ad acta avrebbe sostanzialmente equiparato la distribuzione “per conto” alla distribuzione convenzionata da parte delle farmacie esprimendo l’auspicio che “la DPC diventi un servizio essenziale e come tale obbligatorio, garantito da tutte le farmacie oltre alla distribuzione convenzionale”». Anche questo assunto è stato giudicato infondato: «La previsione che pone il DPC come servizio essenziale e obbligatorio garantito da tutte le farmacie oltre alla distribuzione convenzionale non collide con il principio di adesione volontaria dei titolari di farmacia. Difatti, l’integrazione della distribuzione convenzionata (che riguarda la generalità dei farmaci) e della DPC costituisce solo un obiettivo programmatico, senza che la relativa previsione assuma carattere immediatamente precettivo».
Infine, era stata ipotizzata la violazione dell’art. 23 della Costituzione, «poiché il DCA avrebbe illegittimamente imposto prestazioni personali aggiuntive e non retribuite ai farmacisti». Per i giudici si tratta ancora una volta di un’ipotesi infondata: «Gli obblighi imposti al farmacista non appaiono particolarmente gravosi e si giustificano con l’esigenza di contenimento della spesa sanitaria in una Regione sottoposta a commissariamento in ragione del grave stato di indebitamento registrato proprio nel settore sanitario. Inoltre, non si ravvisa alcuna illegittima coartazione della libertà del medico prescrittore perché il DCA prevede che, qualora il medico non completi la prescrizioni con le indicazioni richieste, il farmacista debba comunque procedere alla dispensazione del farmaco, pur imponendo l’obbligo di informare l’ASL territorialmente competente».

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